sabato 27 agosto 2011

Bagheria: la Villa dei mostri

Francesco Ferdinando Gravina, principe di Palagonia, un precursore dell'arte surrealista.Cominciamo oggi un viaggio dentro e fuori le settecentesche ville di Bagheria, gioielli dell'architettura siciliana, che hanno reso celebre nel mondo questo comune poco distante da Palermo e che ha dato i natali a personaggi di assoluto rilievo nel campo delle arti e della cultura. Ne ricordiamo due su tutti: il pittore Renato Guttuso e il poeta Ignazio Buttitta.



Villa Palagonia: la Villa dei Mostri
Superba ed eccentrica, Villa Palagonia meglio conosciuta come la Villa dei Mostri, è uno dei monumenti siciliani barocchi più conosciuti a livello nazionale e internazionale. La villa fu fatta costruire nel 1715 da Francesco Ferdinando Gravina, principe di Palagonia. Per la progettazione fu incaricato il frate domenicano Tommaso Maria Napoli, architetto coadiuvatore del Senato di Palermo, con la collaborazione di un altro grande e stimato architetto siciliano, Agatino Daidone. Tommaso Maria Napoli ebbe il merito di conferire alla villa uno straordinario disegno planimetrico unitario, con tutti gli elementi che si sviluppano e agiscono coordinatamente rispetto all'asse baricentrico del viale. Sia il casino principale che i corpi bassi, i cortili ed il viale soggiacciono infatti, ad un unico asse prospettico. Morto il fondatore nel 1737 gli succedette il figlio Ignazio Sebastiano che morì nel 1746. Fu il figlio di questi, Francesco Ferdinando II, a iniziare i lavori per la realizzazione dei corpi bassi che circondano la villa e a ideare le numerose statue grottesche ed il bizzarro arredamento della villa. Ad Henry Swinburne che nel 1777 chiese al principe notizie sull'originale iconografia dei mostri, egli rispose: ''In Egitto, secondo Diodoro Siculo, l'azione dei raggi solari sul limo del Nilo è talmente potente da far scovare ogni sorta di animale''. Nasce da questa convinzione, probabilmente, la villa dei mostri, chiamata così per le particolari decorazioni che adornano i muri esterni dei corpi bassi, formate da statue in "pietra tufacea d'Aspra", raffiguranti animali fantastici, figure antropomorfe, statue di dame e cavalieri, gnomi, centauri, draghi, suonatori di curiosi strumenti, figure mitologiche e mostri di tutti i tipi e tempi. Inizialmente le statue erano più di 200, mentre oggi ne restano appena 62, molte delle quali in cattivo stato di conservazione, annerite dallo smog e sbriciolate dagli anni. La tradizione vuole, inoltre, che il principe di Palagonia fosse brutto e deforme e quindi, quasi per vendicarsi del suo avverso destino, volle ridicolizzare attraverso una serie di caricature amici e conoscenti che lo circondavano e che partecipavano ai tanti ricevimenti che egli era solito tenere nel suo palazzo. Anche l'arredamento dei saloni era alquanto bizzarro: i piedi di alcune sedie erano segati in maniera disuguale così che rimanessero zoppe, mentre altre erano talmente inclinate in avanti che bisognava fare molti sforzi per non scivolare e cadere. Sotto i velluti delle sedie spesso erano stati nascosti spilli e spuntoni. Patrik Brydon nel suo ''Viaggio in Sicilia ed a Malta'' (1770) così scrisse: ''Il Palazzo di Palagonia per la sua bizzarria non ha uguale sulla faccia della terra... il Principe di Palagonia ha dedicato la sua vita intera allo studio delle chimere e di mostri e se ne è fatti fare tanti che più ridicoli e più strani neppure la fantasia dei più arditi scrittori di romanzi e storie di cavalieri erranti avrebbero saputo creare (...) pare di essere capitato nel paese dell'illusione e dell'incantesimo. Costui ha posto teste umane su corpi di animali di ogni genere e teste di animali su corpi umani. Talvolta poi ricorre all'incrocio di cinque o sei bestie diverse che non hanno alcun riscontro in natura. Mette una testa di leone su un collo d'oca e sotto ti colloca un corpo di lucertola, zampe di capra ed una coda di volpe. Sul dorso di questo mostro ne pone uno più orrendo se è possibile con cinque o sei teste ed una foresta di corna tale da dar dei punti alla bestia dell'Apocalisse (...). L'orologio a pendolo è sistemato nel corpo di una statua. Gli occhi della figura si muovono col pendolo. La camera da letto e lo spogliatoio sembravano due scomparti dell'arca di Noè. Bestie che compaiono li dentro: rospi, ranocchi, serpenti, lucertole, scorpioni tutti scolpiti in marmo di colore adatto. Ci sono anche molti busti altrettanto stravaganti. In alcuni si vede da una parte un bellissimo profilo, girati dall'altra si presenta uno scheletro, oppure una balia con un bambino in braccio col corpo di un infante, ma la faccia è quella grinzosa di una vecchia di 90 anni''. Il palazzo si articola in due piani. Si accede al piano nobile attraverso uno scalone a doppia rampa in prezioso marmo di Billiemi sotto il fastoso principesco stemma della famiglia Gravina. Subito ci si imbatte in un vestibolo Salone degli Specchiellittico fatto affrescare con scene raffiguranti le ''fatiche di Ercole'', in omaggio al nuovo gusto di fine '700. Alla sua destra si trova la "Sala degli specchi", il meraviglioso salone quadrato di ricevimento decorato in maniera lussuosa con marmi di svariato colore, con il tetto interamente coperto di specchi che deformavano, deridendole, le figure riflesse. Nei muri medaglioni e busti artistici raffiguranti il principe e persone di famiglia, scolpiti nel marmo dal Gagini. Da questo ampio salone si accede alla sala della cappella e, di fronte ad essa, attraversando la "Sala degli specchi" si giunge nella sala del biliardo. La costruzione della villa costò al principe di Gravina centomila scudi, una cifra enorme per i tempi. Oggi il palazzo, monumento nazionale di proprietà privata, purtroppo è in pessimo stato di manutenzione. Nel 1885 la villa fu acquistata dalla famiglia Castronovo che, grazie ai suoi eredi, ne rende possibile la visita. Il viale d'ingresso : Il viale che conduceva a Villa Palagonia, iniziava con un grande arco trionfale a tre fornici (volte), chiamato dei 'Tre portoni', sorretto da colonne che precedeva quattro file di cipressi. Alla fine di questo breve viale, lungo circa 190 metri e largo 21, era collocato un secondo arco di trionfo ad una sola fornice, detto della 'S.S. Trinità', da cui partiva una balaustra adorna di vasi, sedili e gruppi statuari mostruosi che costeggiavano il viale, lungo 400 metri e largo 12. Questo secondo viale giungeva fino alla grande esedra ellittica legata ai corpi bassi che circondavano la villa. Del primo arco oggi purtroppo non resta nulla tranne che qualche fotografia, mentre resta integro il secondoArco del ''Padreterno'' in una incisione di Jean Houel arco. Il viale fu realizzato tra il 1747 ed il 1776. L'arco della S.S. Trinità, comunemente detto 'Arco del Padreterno', è costituito da un parallelepipedo con le pareti laterali curve decorate da sei grandi statue, poggianti su alti piedistalli che lambiscono la cornice posta a completamento delle paraste (finte colonne con scopo ornamentale), con sopra una elegante balaustra traforata finemente. Nel piedritto (sostegno dell'arco o della volta) di sinistra, si trova una cappella coperta da una calotta semisferica, mentre in quello di destra è ubicata una scala che conduce al terrazzo belvedere. La struttura dell'arco è realizzata da grossi e squadrati blocchi di tufo, comunemente detti pietra d'Aspra, proveniente dalle vicine cave di Monte Catalfano. Alcuni elementi decorativi come i due stemmi della famiglia Palagonia sono in marmo bianco di Carrara. Le statue, anch'esse in tufo, rappresentano soldati armati che indossano abiti ricchi di dettagli e ornamenti. Le statue originariamente erano ricoperte da stucco di gesso e calce di colore bianco che oltre a proteggere il tufo aveva la funzione di nobilitare il materiale facendolo sembrare più prezioso, simile al marmo. Prima del recente restauro, nella parte interna dell'arco, erano collocati tre bassorilievi in legno, inseriti nello sfondo azzurro della volta, rappresentazione del cielo. Quello descritto era l'ingresso principale di Villa Palagonia. L'ingresso opposto, quello da cui si accede oggi da piazza Garibaldi è arricchito da due grosse statue di nani, scolpite in pietra ammonitica,che sembra facciano da sentinelle al palazzo.

La chiesa di Villa Palagonia
L'architetto Tommaso Maria Napoli fu incaricato di costruire una Chiesetta privata attigua al palazzo, oggi aperta al pubblico per l'esercizio del culto. Anche nella Chiesa il principe volle lasciare il segno delle sue stranezze. Infatti, ai piedi del Cristo Crocifisso attaccato alla volta della Chiesa mediante un gancio, un uomo in ginocchio somigliante al principe Gravina, sta legato con una catinella all'ombelico del Cristo stesso. Si dice che il principe fosse molto religioso e soprattutto molto devoto di Sant'Ignazio di Loyola. La fama della Villa
Era la Pasqua del 1787 quando il poeta Johann Wolfang Goethe, accompagnato dal pittore e paesaggista Kniep, visitò Villa Palagonia. Pur rimanendo fortemente disgustato alla vista della villa il poeta dedicò ad essa numerose pagine dei suoi appunti e, prima ancora del rientro in patria, grazie alle sue lettere, la sua descrizione si diffuse alla corte di Weimar del duca Karl August e nel salotto della sua amica Charlotte von Stein. Goethe ebbe modo anche di incontrare il principe Francesco Ferdinando Gravina II e lo descrisse come ''un signore allampanato, un vegliardo solenne e grave, tutto azzimato ed incipriato'', un nobiluomo vecchio stampo insomma, almeno all'apparenza. In realtà, il principe si discostava non poco dai nobili che lo circondavano. Molti storici e critici dell'arte hanno voluto vedere in lui un precursore dell'arte surrealista mentre i suoi contemporanei lo giudicarono più semplicemente ''pazzo''. La fama di Villa Palagonia comunque, era già grande quando il poeta Goethe la visitò, infatti nove anni prima erano iniziate le descrizioni di viaggiatori stranieri, come gli inglesi P. Brydone, H. Swinburne, del conte polacco M. De Borch e del francese architetto ed incisore Houel il quale affermava senza mezzi termini di ''aver visitato il palazzo più originale che esiste al mondo e già famoso in Europa a forza di stranezze...'' . Da allora il palazzo è stato visitato da innumerevoli uomini illustri e utilizzato anche, nell'ultimo secolo, per fare riprese cinematografiche. Da ricordare per esempio nel 1962 il film ''Mafioso'' di Alberto Lattuada interpretato dal grande Alberto Sordi.



Le cave di Custonaci (Trapani)

Le cave di Custonaci (Trapani)

Custonaci è il primo bacino marmifero in Sicilia, il secondo in Italia ed in Europa, in quanto ha un’estensione di 62 kmq, di importanza non solo geologica ma soprattutto economica, dal quale si estrae l’85% dei marmi siciliani. La Pietra di Custonaci, oggi esportata in tutto il mondo, è stato utilizzato fin dal Medioevo: il libeccio antico, policromo con sfumature sul rosso, riveste importanti edifici come la Reggia di Caserta e la Basilica di San Pietro a Roma. Nel dopoguerra, grazie all’industrializzazione, Custonaci ha assunto ruoli di primo piano nel campo internazionale, grazie al Perlato di Sicilia, oltre al quale oggi si estraggono: Perlatino di Sicilia, Botticino, Avorio venato, Brecciato, Libeccio. Qui sotto ecco come si presenta il perlato di Sicilia lucidato.


giovedì 25 agosto 2011

Le antiche strade romane


L'attuale termine strada deriva da viae strata cioè via lastricata. Ogni strada romana, aveva una struttura ben precisa e si sviluppava in modo più o meno rettilineo. Originariamente le dimensioni delle strade erano sancite dalle XII Tavole: per esempio la larghezza media andava dai 4 ai 6 metri, potevano avere due marciapiedi (margines) laterali di 2/3 metri di larghezza circa o anche più. Avevano uno spessore che andava dai 90 ai 120 cm, ed erano formate da una massicciata di tre strati di pietre sempre più piccole, legate con malta (ciò per permettere una maggior resistenza e durata nel tempo), e dal piano stradale lastricato, costituito da uno strato di blocchi di pietra spianati e accostati. La costruzione iniziava con il scavare un "letto" tra due solchi, i quali ne delimitavano la larghezza, nel quale sarebbero stati posati i vari strati di pietre. Lo strato più basso, era composto da pietre molto grandi come sassi ed era detto statumen, il secondo chiamato rudus era formato da ciottoli di medie dimensioni, il terzo da ghiaia mista ad argilla detto nucleus, ed il quarto era il vero e proprio manto stradale chiamato pavimentum: esso era composto da lastre grosse e piatte adagiate in orizzontale, ma con una forma lievemente convessa per facilitare lo scolo delle acque piovane, verso le canalette di scolo, sempre presenti nelle vie cittadine ( * da  www.imperium-romanum.it)



La Via Appia è una delle più importanti, se non la più importante, strade dell’Impero Romano (veniva chiamata “regina viarum”). Fu costruita nel 312 a.c. circa dal censore Appio Claudio Cieco e collegava l’Urbe a Brindisi, il principale porto dell’epoca per commercializzare con la Grecia e l’Oriente. Curiosità: la Via Appia fu la prima strada romana sulla quale vennero installate le cosiddette “pietre miliari“: un cippo iscritto, posto sul ciglio stradale, utilizzato per scandire le distanze lungo le vie pubbliche romane (* da http://stradediroma.wordpress.com).


Giuseppe Mercalli geofisico



Da Wikipedia, l'enciclopedia libera - Sopra dipinto di Saverio Della Gatta

Biografia

Giuseppe Mercalli (Milano, 21 maggio 1850 – Napoli, 20 marzo 1914) è stato un geologo, sismologo e vulcanologo italiano, che ha legato il proprio nome alla famosa Scala Mercalli per la misurazione dell'intensità di un terremoto. Proveniente da una famiglia cristiano cattolica (ha una nipote suora, direttrice delle Suore di Santa Marcellina) prende gli ordini sacerdotali nel 1872. Allievo del geologo lombardo Antonio Stoppani, nel 1874 consegue la Laurea in Scienze Naturali. Insegna quindi scienze naturali al seminario di Monza. Al periodo 1880-1913 si può circoscrivere la sua attività di ricerca. Studia inizialmente i depositi glaciali alpini in Lombardia, dunque diventa insegnante di scuole secondarie religiose a Monza, per le quali realizza anche testi scolastici.Nel 1885 insegna a Reggio Calabria, per poi ottere la libera docenza e diventare professore di geologia e mineralogia all'Università di Catania. A partire dal 1892 insegna vulcanologia e sismologia all'Università di Napoli. Nella stessa città, nel 1911, sostituisce Vittorio Matteucci come direttore dell'Osservatorio Vesuviano. Progetta una riforma dell'Osservatorio stesso, basata su un programma di ricerca che prevedeva lo studio del vulcano partenopeo e delle sue eruzioni, la registrazione dell'attività sismica e presismica (precursori), oltre all'osservazione e valutazione dei risultati di misurazioni sul campo. Nel periodo che va dal 1892 al 1911, frattanto, insegna al Liceo Vittorio Emanuele di Napoli (maestro, tra gli altri, di Giuseppe Moscati). Fra i suoi collaboratori, Achille Ratti, che sarebbe salito al soglio pontificio come Pio XI, del quale Mercalli era stato professore ai tempi del Seminario di Milano e del quale rimase sempre amico. Il 20 marzo 1914 muore tragicamente nel rogo che si sviluppa in casa propria, in via Sapienza a Napoli.

Opere

Ha pubblicato circa 115 tra studi, ricerche e osservazioni su pubblicazioni periodiche, ed è stato membro di importanti associazioni scientifiche. Ha realizzato per primo una carta sismica del territorio italiano, dopo aver posto il problema di tale lacuna. Diventato celebre per la scala che porta il suo nome (Scala Mercalli), che misura l'intensità delle scosse sismiche in base agli effetti prodotti, che, inizialmente di dieci gradi, fu modificata con un grado ulteriore prima, nel 1908, a seguito del terremoto di Messina; e successivamente, fino a essere composta di 12 gradi e diventar nota come scala MCS (Mercalli, Cancani, Sieberg). Viene insignito dell'onorificenza di Cavaliere della Corona d'Italia per meriti scientifici. Dà il nome alla Sindrome di Mercalli, detta anche sindrome cenestetica inesplicabile, che è l'insieme di reazioni che colpiscono soprattutto gli animali prima dei sismi (nausea, eccitazione nervosa, tremolio delle membra)

Pubblicazioni

Tra i suoi numerosi studi di sismologia e vulcanologia si ricordano in particolare le monografie I vulcani attivi della Terra (1889) e gli studi sui terremoti di Casamicciola (1883), delle Isole Pontine (1892) e di Messina (1908).
  • Studi su Vesuvio, Stromboli e Vulcano
  • I vulcani e i fenomeni vulcanici in Italia (Milano, Francesco Vallardi, 1883), Terzo volume della Geologia d'Italia
  • Il terremoto di Lombardia (1884)
  • Il terremoto di Lecco (1887)
  • Il terremoto dell'Andalusia (1897)
  • I vulcani attivi della Terra (Milano 1897)
  • Notizie vesuviane (1901-1907)
  • Studi sui terremoti della Calabria meridionale
  • Il risveglio del Vesuvio (1913)
  • Studi sui fenomeni del bradisismo del Serapeo e della Solfatara

Il terremoto dell'Acquila

Alle 3:32 del 6 aprile del 2009 L’Aquila e l’Abruzzo hanno tremato, scossi da un terremoto di intensità 5,9 sulla scala Richter. Le vittime del terremoto sono state complessivamente 309 e i danni ingenti: il centro storico dell’Aquila è stato fortemente compromesso, soprattutto nell’area che è divenuta nota come «zona rossa», e moltissimi sono stati i comuni limitrofi colpiti. La scossa principale si è avvertita a ovest fino a Roma, a sud ovest fino a Napoli e Ascoli Piceno verso nord. Nonostante le polemiche che si sono sviluppate nei giorni immediatamente successivi al 6 aprile, al momento non è possibile prevedere i terremoti. Lo ha ribadito spesso il presidente dell’INGV, Enzo Boschi, nelle occasioni in cui è stato interpellato dopo il terremoto. Sappiamo che ci sono luoghi in cui la probabilità che avvenga un terremoto è più alta che in altri, perché in quei luoghi ci sono stati molti terremoti in passato ed è logico pensare che su quelle faglie ci saranno ancora terremoti più o meno della stessa intensità di quelli che si sono registrati. Se non è possibile prevedere quando ci sarà il prossimo terremoto, di sicuro è possibile provare a gestire il rischio sismico. Un aspetto dei terremoti a cui è dedicato un progetto della sezione bolognese dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste (OGS). Si chiama Edurisk e si rivolge alle scuole italiane, proponendo itinerari di formazione. Edurisk mette in campo i ricercatori, la scuola e tutti i cittadini, coinvolgendoli in un progetto di formazione e scoperta del rischio sismico, attraverso la diffusione di informazioni scientifiche aggiornate e tali da consentire una conoscenza approfondita del territorio. Secondo gli ideatori del progetto la conoscenza è il migliore strumento per avviare strategie di prevenzione e riduzione dei rischi naturali, come quelli provocati dalle scosse sismiche. In occasione del secondo anniversario del terremoto aquilano, siamo andati a intervistare Romano Camassi, una delle anime di Edurisk, che ci ha raccontato quale sia la situazione a L’Aquila oggi e di un ultimo piccolo progetto per la diffusione di Edurisk a un pubblico ancora più vasto  (* da editore Zanichelli).

sabato 13 agosto 2011

Firenze il ponte vecchio

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

Il Ponte Vecchio è uno dei simboli della città di Firenze ed uno dei ponti più famosi del mondo. Attraversa il fiume Arno nel suo punto più stretto, dove nell'antichità esisteva un guado. Architettura. Ponte Vecchio è composto da tre ampi valichi ad arco ribassato (rapporto altezza:larghezza 1:6); per la prima volta in Occidente veniva superato il modello romano che prevedeva l'uso esclusivo di valichi a tutto sesto (ovvero arcate semicircolari) che nel caso di un ponte molto lungo richiedevano un gran numero di arcate, creando così potenziali pericoli in caso di piena (per la facile ostruzione dei valichi stretti) o una pendenza molto accentuata, soluzione ugualmente indesiderabile (casi tipici: il Ponte della Maddalena, presso Borgo a Mozzano, il Ponte Fabricio, a Roma). L'esempio fece scuola, con una simile arcata ribassata fu costruito nel XVI secolo il Ponte di Rialto a Venezia e molti altri. Il ponte di Alconétar, in Spagna, offre un esempio molto più antico di impiego di valichi ad arco ribassato, ma non riesce ad evitare il problema dell'intasamento del letto del fiume con le pile di sostegno degli archi, dato che si tratta di un ponte con numerosi piccoli valichi, in tutto simile ai tradizionali ponti con archi a tutto sesto. Altra caratteristica tipica, ben più evidente al turista ma meno rivoluzionaria, è il passaggio fiancheggiato da due file di botteghe artigiane, ricavate in antichi portici poi chiusi, che lo hanno reso famoso, come se si trattasse del proseguimento della strada. Le botteghe di Ponte Vecchio si affacciano tutte sul passaggio centrale, ciascuna con un'unica vetrina chiusa da spesse porte in legno, e spesso presentano un retrobottega costruito a sbalzo sul fiume e sostenuto da beccatelli (o "sporti").

venerdì 12 agosto 2011

Toscana - Geologia dell'isola d'Elba


L'ipotesi più accreditata sulla nascita dell'Isola è quella espressa nel 1964 da Antonio Lazzarotto, Renzo Mazzanti e Renzo Mazzoncini, che qui si riporta succintamente. In tempi remoti si accumularono, sul fondo del mare preistorico dal quale emergerà l'Arcipelago Toscano, sedimenti di tipo argilloso – che i geologi della seconda metà del secolo scorso hanno classificato come serie toscana – oltre ad alcuni ammassi di ofioliti (rocce basaltiche), probabilmente d'origine ligure. Per circa cinquanta milioni d'anni lo strato sedimentario si accrebbe fino a quando la tremenda pressione esercitata sulla crosta granitica sottostante fece fondere milioni di tonnellate di roccia – gli scienziati chiamano tale processo anatessi – ed il magma ottenutosi, più leggero delle rocce soprastanti, giunse in superficie formando i cosiddetti plutoni. Sette milioni di anni fa emersero i plutoni del Monte Capanne (Elba) e di Montecristo; meno di un milione di anni dopo vide la luce il secondo plutone elbano, quello di Porto Azzurro, ed infine, cinque milioni di anni fa, s'innalzò verso la superficie quello gigliese. In parallelo col plutone del Giglio ne emersero altri due, ancor oggi sepolti: uno in corrispondenza del Monte Argentario e l'altro sotto l'Isola di Giannutri: il sollevamento delle rocce sedimentarie di copertura unì, quindi, per un tempo considerevole le tre aree. Mentre il magma sottostante tendeva a raffreddarsi in modo differenziato, dando origine alle cosiddette facies di Pietrabona e facies dell'Arenella, una serie di sprofondamenti causati da movimenti distensivi permise la penetrazione del mare fra i tre ammassi magmatici, facendo diventare il Giglio e Giannutri due isole a sé stanti. Successivamente l'erosione eliminò quasi completamente i sedimenti e le rocce metamorfosate dal magma durante la sua risalita, portando alla luce il “granito”: resti di detta copertura sono osservabili presso la Punta del Fenaio, la Vena e Poggio Mortoleto (quarziti e micascisti). Durante il Quaternario (da circa 1.5 milioni di anni fa ad oggi), tutto l'Arcipelago fu interessato da fenomeni di oscillazione del livello marino – i geologi li chiamano eventi di regressione e trasgressione – dovute ai periodi glaciali e interglaciali. In particolare nel Pliocene superiore il mare toscano regredì marcatamente: i sedimenti deposti in seguito a tali eventi sono ben evidenti alla Torre di Campese ed alla Punta di Sparavieri (panchina eolica e panchina marina). Nel Pleistocene superiore (circa 125.000 anni fa), durante la cosiddetta trasgressione Tirreniana, il mare arrivò fino a 15 metri sopra il livello attuale ed il Giglio divenne per sempre un'isola, come dimostra il fatto che anche durante la glaciazione Würmiana (circa 75.000 - 11.000 anni fa) il Giglio rimase fisicamente separato dal resto della terraferma.

La via Ximeniana da Pistoia a Modena

TOSCANA – L'ABETONE E LA VIA XIMENIANA DA PISTOIA A MODENA


l’Abetone è un centro abitato sorto a ridosso del valico dello spartiacque appenninico, lungo la SS12. Abetone è un comune italiano di 692 abitanti della provincia di Pistoia, in Toscana. Venne fondato nel 1936 prendendo una parte del territorio del comune di Fiumalbo e una di Cutigliano. È noto sia come località di villeggiatura invernale dove praticare sport invernali che come località di villeggiatura estiva. Il percorso dell’antica via ximeniana è segnato da due piramidi monumentali che celebrano la realizzazione della Strada Regia Modenese. La montagna, con le sue estese foreste e giacimenti di pietra, è stata, per secoli, fonte di sostentamento per l’economia locale. Tuttavia gli erti pendii e i malagevoli passi rendevano difficili le comunicazioni fra il versante tirrenico e quello emiliano. Solo nel XVIII secolo, grazie all’ardito progetto di Leonardo Ximenes, fu possibile realizzare una comoda via di comunicazione fra questi impervi territori e l’Italia settentrionale. Nel 1766 iniziò la costruzione della strada (già pensata fin dai primi del secolo) che univa il Granducato di Toscana con il Ducato di Modena attraversando l'Appennino toscano, nel tratto più basso chiamato "Serrabassa" dai modenesi e "Boscolungo" dai toscani, e creando appunto il "Passo dell'Abetone". Il progetto fu redatto da Pietro Giardini per la parte modenese e Leonardo Ximenes per quella toscana infatti la strada veniva chiamata Via Ximeniana (l'odierna Strada Statale 66).

Tra i due Stati fu convenuto di avviare i lavori contemporaneamente partendo dal confine, questo per evitare tardivi ripensamenti. Nell'aprile del 1766 si iniziarono i lavori, ma siccome un miglio sopra Fiumalbo la neve era alta due braccia, si sarebbe cominciato il lavoro più in basso, appena pronti gli arnesi da sterro. Il primo colpo di piccone, per la parte modenese, fu dato il 28 aprile 1766, appena sopra Fiumalbo, presso il luogo chiamato Il Baldinare, dove sorsero le prime baracche e ricoveri per gli uomini e gli attrezzi. Seicento operai divisi in sei compagnie, tra cui più di 50 scalpellini, misero mano al lavoro in due posizioni diverse, mentre il lavoro dei toscani si era già cominciato alle Ferriere di Mammiano. Da lì i lavori si estesero con crescente lena verso il confine toscano e durante l'estate anche verso Modena. Durante la costruzione fu abbattuto un abete talmente grande da non poter essere abbracciato neppure da sei persone e dal quale nacque il nome Abetone. La strada fu inaugurata il 1º maggio 1781, fu giudicata da alcuni addirittura l'opera più grandiosa del secolo (valicare l'Appennino all'epoca non era cosa da poco), ed ebbe grande importanza nel collegare la Toscana non solo a Modena ma anche a Mantova e all'Austria. Sul confine, furono create due piramidi di bozze, adorne degli stemmi dei due ducati (* wikipedia.it).